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«Il diritto alla conoscenza vive solo se vivono i radicali»

«Tre anni fa c’eravamo solo Marco Pannella e noi radicali, ora siamo molti di più a credere in questa battaglia». Le parole sono di Laura Harth e la battaglia è quella per il Diritto alla conoscenza, tema del convegno che, lunedì all’Università Statale di Milano, ha riunito personalità diverse per discutere di una nuova frontiera della scienza giuridica, ma anche dei rischi che lo Stato di diritto corre oggi nel mondo. «La negazione del diritto alla conoscenza», esordisce l’ambasciatore Giulio Terzi di Sant’Agata, «è il denominatore comune di tutte le maggiori crisi dal 2000 a oggi: Iraq, Siria, Crimea, Brexit e Catalogna». Ed è Ezechia Paolo Reale, allievo di Cherif Bassiouni che fu tra i principali artefici della Corte Penale Internazionale, a dare la definizione del Diritto alla conoscenza, come «il diritto civile e politico del cittadino di essere attivamente informato su tutti gli aspetti riguardanti l’amministrazione di tutti i beni pubblici durante l’intero processo politico, al fine di consentire la partecipazione piena e democratica nel dibattito pubblico su tali beni e di poter tenere gli amministratori di beni pubblici accountable ( responsabili) secondo gli standard dei diritti umani e dello Stato di Diritto».

Il concetto, coniato dal giurista Harold L. Cross nel 1953, è alla base del Freedom Of Information Act americano ( 1966). Ma, in fondo, sta già tutto nel motto einaudiano «conoscere per deliberare», tanto caro a Pannella e richiamato dal deputato Pd Roberto Rampi, per il quale «nel 2003 al Mondo è stato impedito di sase pere che la “pistola fumante” agitata da Bush in Iraq non esisteva». Un diritto, dice Alba Bonetti di Amnesty International, cui i governi oppongono la necessità della sicurezza, «sorvegliando i cittadini ma senza regolamentare il business delle tecnologie di sorveglianza, come dimostra il caso Snowden».

E l’azione di hacking nell’interes- pubblico è rivendicata da Giovanni Ziccardi, docente di Informatica giuridica nell’ateneo milanese, che alle fake news suggerisce di «reagire rendendo i dati veri persistenti e virali». Mentre Claudio Radaelli dell’Università di Exeter illustra i meccanismi di questo nuovo diritto: la facoltà dei cittadini di esprimere commenti e avere risposte prima che una decisione venga presa, e l’obbligo dei governi a fornire le ragioni delle proprie scelte. Buone pratiche che, sottolinea Maddalena Pezzotti di Liberi Cittadini, hanno già esempi nel Sud del mondo, come il «bilancio partecipativo» nato a Porto Alegre nel 1989.

Avremo un giorno il Diritto alla conoscenza? Sì, avverte Matteo Angioli, ma solo se sopravvive il Partito Radicale, destinato a chiudere se non farà 3.000 sottoscrizioni entro l’anno. Appello rilanciato da Rampi e Terzi di Sant’Agata, militanti in partiti diversi ma entrambi iscritti al Partito radicale Transnazionale.

IL CONCETTO, CONIATO DAL GIURISTA HAROLD L. CROSS NEL 1953, È ALLA BASE DEL FREEDOM OF INFORMATION ACT AMERICANO

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