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La contenzione che va superata retaggio dei manicomi e degli Opg

LA MORTE PER LE GRAVI USTIONI DI ELENA, LEGATA IN UN LETTO, RIAPRE IL DIBATTITO

Distratti dalle vicende e dalle crisi politiche, dai selfie sulle spiagge e dai falò di ferragosto, è passata quasi sotto silenzio la morte di Elena, una ragazza non ancora ventenne deceduta il 13 agosto nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Bergamo per le ustioni provocate da un incendio nel momento in cui si trovava legata ad un letto di coercizione per frenare una precedente agitazione psicomotoria.

La sciagura ha riacceso le luci sull’antica discussione relativa all’utilizzo o meno della contenzione fisica in psichiatria, l’uso della forza e del legare ad un letto il paziente agitato, bloccandolo agli arti e al torace, così da immobilizzarlo e renderlo “innocuo per sé e per gli altri”. Pratica tutt’ora abbondantemente applicata: da una ricerca recente si è appurato che l’ 85% dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura la utilizzano regolarmente, e a volte accade che la brutale pratica produca morti e danni: è il caso di Francesco Mastrogiovanni, morto legato a un letto e abbandonato per un tempo eccessivo all’ospedale di Vallo della Lucania nell’agosto del 2009, o di Antonia Bernardini bruciata viva nel manicomio criminale di Pozzuoli nel dicembre 1974, o di Andre Soldi, immobilizzato a morte da agenti della polizia municipale a Torino nel 2015 nel corso di un Tso, solo per citare alcuni casi.

In Italia solo pochi dipartimenti di salute mentale non praticano per scelta la coercizione, mentre viene usata senza parsimonia nei reparti psichiatrici di ospedali e cliniche private, nelle RemsS che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari, e nelle case di riposo per anziani per frenare pazienti con alzheimer agitati o di difficoltoso controllo. E, naturalmente, in quasi tutti i casi di Trattamento Sanitario Obbligatorio.

La coercizione fisica in Italia viene regolata da disposizioni legislative che di fatto, pur non sempre ammettendola, la consentono e quindi la legalizzano. Ci sono una serie di leggi e disposizioni che regolano questa pratica, sia a favore sia contro, e in genere lasciano ampio spazio di discrezionalità nel riconoscere uno “stato di necessità” di variabile interpretazione, condizione alla base della pratica, consentendo infine un metodo certamente brutale e traumatico per tutti. Una pratica che, senza vergogna, viene definita “sanitaria” o “medica” pur non avendo nessuna di queste caratteristiche.

Conosco il problema, sia come psichiatra sia per essere stato per lungo tempo direttore dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa dove, nel 2008, si riuscì ad eliminare completamente e per sempre la coercizione nell’istituto campano, almeno finché fu funzionante. Fu però una operazione lunga e complessa, che richiese un corso formativo durato due anni per gli operatori tutti della struttura, all’epoca composta oltre che da medici e infermieri anche dal personale di polizia penitenziaria e educatori.

Del resto avevo conosciuto nella mia formazione psichiatri più maturi di me, e i più illuminati mi raccontavano di quando erano andati a dirigere strutture psichiatriche e di quando avevano disposto immediatamente l’eliminazione della contenzione. Non mi raccontavano però che nel momento in cui andavano a lavorare altrove i letti di contenzione riapparivano come di incanto, segno che evidentemente la radice era dura a morire, essendo connessa con i modelli culturali di appartenenza.

In una struttura come quella psichiatrico- giudiziaria la coercizione poteva diventare un’arma ( e a volte lo diventava) per essere messa in atto senza reale motivo, con la scusante della prevenzione, a volte anche a scopo punitivo, o solo perché non si sapeva cosa altro fare, come probabilmente avviene ancora oggi nelle strutture che la praticano. Fu con la consapevolezza di questi rischi che non ci si accontentò, allora, di togliere i letti in una istituzione totale, ma si preferì rendere inutile il loro uso. Una consapevolezza che, anche attualmente, deve indurre riflessioni finalizzate a chiarire i vari aspetti del problema, per potere individuare la soluzione senza demagogie. È evidente che la coercizione rappresenta il fallimento della psichiatria e un barbaro ritorno ai tempi pre Bicètre, o - se si preferisce - al positivismo tutto concentrato sul corpo. Ma è anche vero che per un operatore psichiatrico trovarsi di fronte un soggetto agitato, magari pericoloso e aggressivo, e non avere altre risorse che la contenzione a rischio della propria salute fisica rende comprensibile, anche se non giustificabile, l’uso della pratica. Il fatto è che non si dovrebbe mai arrivare ad un paziente agitato, perché questo è un fallimento, e la coercizione rappresenta tutti i fallimenti possibili della psichiatria e non solo.

Un paziente agitato è certamente un fallimento perché vuol dire che non è stato monitorato e trattato adeguatamente. E un paziente agitato non dovrebbe mai essere approcciato da chi non ha competenze e formazioni, perché in questo caso la coercizione diventa la soluzione più semplice e quindi inevitabile.

È nella formazione e nella prevenzione, dunque, che i servizi psichiatrici dovrebbero investire, operazione quanto mai complessa e di difficile attuazione, perché necessita di tempi, energie, risorse economiche, volontà di crescere e di radicale mutamento di modelli culturali che vivono sull’emergenza e sulla risoluzione rapida e indolore, almeno per gli operatori.

La storia di Elena, già oggetto di indagine giudiziaria, diventa quindi una ulteriore testimonianza di una inadeguatezza culturale che, a distanza di quaranta anni dalla chiusura dei manicomi e dopo il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, non riesce ad essere correttamente affrontata dalla psichiatria. Questa ultima è sempre più tesa alla ricerca di farmaci e connessioni di neurotrasmettitori e sempre meno a quello che è il rapporto medico/ paziente, dimenticando di essere una commistione tra medicina e scienze umane, e che per dirla con le parole di Eugenio Borgna “la psichiatria è innanzitutto gentilezza”. Bisogna però trovare chi la insegna e soprattutto chi vuole imparare ad essere gentile.

* psichiatra

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